I leader delle sette più piccole entità statali del Pacific Islands Forum lanciano l'ennesimo grido d'allarme: il prossimo appuntamento internazionale sul clima - il COP21 in programma a Parigi a Dicembre - sarà la loro ultima chance di sopravvivenza. Si tratta dei capi di stato di piccolissimi arcipelaghi: isole Cook, Kiribati, isole Marshall, Nauru, Niue, Palau e Tuvalu. La loro conformazione geografica e l'altitudine media dei loro territori ne fanno le vittime predestinate dell'innalzamento del livello dei mari. Nel 2014 il governo di Kiribati ha già acquistato una porzione di territorio nelle Isole Fiji per trasferirvi, se sarà necessario, l'intera popolazione (103.000 persone): lo raccontò The Guardian un anno fa: Besieged by the rising tides of climate change, Kiribati buys land in Fiji. Per questa ragione i governi delle piccole isole si appellano ai decisori globali che si riuniranno a Parigi perché si colga finalmente l'occasione per "invertire il percorso del riscaldamento globale e garantire la futura sopravvivenza e l'esistenza delle nostre nazioni, dei nostri popoli, delle nostre culture". Sono parole drammatiche, che dal lontano Pacifico arrivano fino a noi affievolite. Eppure si tratta della sorte di quasi 230mila persone: culture millenarie che si radicarono negli arcipelaghi molto tempo prima dell'arrivo dei navigatori europei e che furono capaci di domare i flutti dell'Oceano dando vita a società profondamente diverse dalla nostra. I colloqui del COP21 dovrebbero servire per trovare un accordo che entri in vigore nel 2020 e che vincoli 195 nazioni a tagliare con decisione le emissioni climalteranti. Si dovrebbe limitare a 1,5 gradi centigradi il riscaldamento globale medio rispetto ai livelli precedenti la rivoluzione industriale.